Luisa Sanfelice, rivoluzionaria per amore
La Sanfelice: dalla Rivoluzione napoletana al patibolo
Il primo a travisare la storia di Luisa di Sanfelice fu Alexandre Dumas, che nel suo romanzo “La Sanfelice”, ne parlò come una giovane eroina romantica e impegnata attivamente in politica. In realtà, ella condusse una vita disordinata, sommersa da debiti e sulla bocca di tutti per i frequenti scandali commessi insieme al marito Andrea Sanfelice, suo cugino di nobile origine.
Re Ferdinando IV, detto Nasone, decise di far portare i tre figli della Sanfelice in alcuni collegi aristocratici, mentre diede ordine di internare il marito in un convento a Nola e lei finì nel Conservatorio di Santa Sofia in Montecorvino Rovella, con l’intento di ricondurli sulla retta via.
Il tentativo fallì miseramente, dato che Andrea scappò dal convento e rapì la moglie Luisa, trasferendosi definitivamente a Napoli. Quando scoppiò la rivoluzione Napoletana, nel 1799, Luisa Sanfelice si era ormai separata dal marito e viveva presso un’amica, la Duchessa di Capuano, in un appartamento di palazzo Mastelloni, situato in Largo della Carità.
Luisa venne a sapere da Gerardo Baccher che le navi inglesi e siciliane avrebbero bombardato Napoli e ricevette un salvacondotto per sfuggire alla rappresaglia; tale simbolo venne recapitato a Vincenzo Cuoco, suo amante prediletto e pochi giorni dopo fu convocata per essere interrogata dal tribunale rivoluzionario.
La sua azione coraggiosa fu esaltata da molti, in particolare Eleonora Pimentel Fonseca elogiò le sue gesta in un articolo scritto sul “Monitore Napoletano”, il giornale più letto in città.
Il processo a Luisa Sanfelice terminò nel peggiore dei modi: re Ferdinando la condannò al patibolo in piazza Mercato, con l’accusa di aver collaborato con i repubblicani; tuttavia, lei si finse in stato interessante e la sentenza venne rimandata. Nel 1800 la giovane Sanfelice morì nel più brutale dei modi, dapprima ferita alla spalla con un colpo di scure e poi trafitta con un coltello da caccia. La tomba di Luisa venne deposta nella Chiesa del Carmine a Napoli.
Re Ferdinando IV, detto Nasone, decise di far portare i tre figli della Sanfelice in alcuni collegi aristocratici, mentre diede ordine di internare il marito in un convento a Nola e lei finì nel Conservatorio di Santa Sofia in Montecorvino Rovella, con l’intento di ricondurli sulla retta via.
Il tentativo fallì miseramente, dato che Andrea scappò dal convento e rapì la moglie Luisa, trasferendosi definitivamente a Napoli. Quando scoppiò la rivoluzione Napoletana, nel 1799, Luisa Sanfelice si era ormai separata dal marito e viveva presso un’amica, la Duchessa di Capuano, in un appartamento di palazzo Mastelloni, situato in Largo della Carità.
Luisa venne a sapere da Gerardo Baccher che le navi inglesi e siciliane avrebbero bombardato Napoli e ricevette un salvacondotto per sfuggire alla rappresaglia; tale simbolo venne recapitato a Vincenzo Cuoco, suo amante prediletto e pochi giorni dopo fu convocata per essere interrogata dal tribunale rivoluzionario.
La sua azione coraggiosa fu esaltata da molti, in particolare Eleonora Pimentel Fonseca elogiò le sue gesta in un articolo scritto sul “Monitore Napoletano”, il giornale più letto in città.
Il processo a Luisa Sanfelice terminò nel peggiore dei modi: re Ferdinando la condannò al patibolo in piazza Mercato, con l’accusa di aver collaborato con i repubblicani; tuttavia, lei si finse in stato interessante e la sentenza venne rimandata. Nel 1800 la giovane Sanfelice morì nel più brutale dei modi, dapprima ferita alla spalla con un colpo di scure e poi trafitta con un coltello da caccia. La tomba di Luisa venne deposta nella Chiesa del Carmine a Napoli.